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Lezioni pasoliniane

contributo di Sergio Di Giorgi

Tra pochi giorni, come è noto, ricorre il quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini. Una ‘morte violenta’, un barbaro e a tutt’oggi ancora oscuro omicidio.

A Milano, all’interno di una bella mostra in corso (fino al 15 novembre)  alla Fondazione Forma (“La vera Italia? Due inchieste di Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia – Comizi d’amore, foto di Mario Dondero, Angelo Novi, Philippe Séclier) viene proiettato il cortometraggio di Maurizio Ponzi Pier Paolo Pasolini. Appunti per un critofilm  (1966). Nel filmato, il grande poeta, romanziere e cineasta chiarisce in modo assai semplice la differenza tra un cinema “di prosa” e un cinema “di poesia”:  in questo si “sente sempre” la macchina da presa, come in Godard, per il primo  c’è John Ford; il cinema, conclude, non è roba solo per romanzieri, ma anche per poeti.

L’accento che un artista multiforme e intellettuale “non organico” (oltre che  testimone del suo tempo  e profeta di quello  a venire) come Pasolini poneva sulla libertà che il linguaggio cinematografico può offrire nello scardinare, ad esempio, regole e modelli narrativi consolidati parla a mio avviso anche ai formatori e agli educatori che da tempo e in vari modi  “si servono” del  cinema. A essere evocata è l’importanza che la conoscenza di quel linguaggio (almeno dei suoi “fondamentali”) e la consapevolezza delle sue potenzialità e della sua “forza”, fuori e dentro i contesti  formativi o educativi. Sembrerebbe un’ovvietà, ma alcune esperienze sul campo in questi anni ci hanno dimostrato che non lo è poi cosi tanto.

Ma oggi, al tempo stesso, formatori ed educatori dovrebbero avere conoscenza e  consapevolezza delle trasformazioni profonde (almeno nelle loro dinamiche principali) che il cinema in tutte le sue dimensioni sta sperimentando (non solo dunque rispetto al suo specifico linguaggio). Ci troviamo infatti in un’epoca, definita anche come post-cinematografica, dominata dal digitale, dalla rete e da scenari intermediali che vedono l’ibridazione  e  l’integrazione dei media, dei linguaggi, degli  immaginari, dei dispositivi, delle pratiche, ecc.

In un articolo di prossima pubblicazione su FOR (nella rubrica da me curata “La visione e gli sguardi”) ho cercato di riflettere su queste trasformazioni prendendo spunto dall’ultimo saggio di Francesco Casetti, autorevole studioso che insegna cinema e media alla Yale University  (La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, 2015, p.442). Ho cercato in quella sede di mettere in relazione le sette parole chiave (che a ben vedere sono otto) individuate da Casetti  – Rilocazione, Reliquie e icone, Assemblage, Espansione, Ipertopia, Display, Performance  – con alcune modalità e criticità connesse all’ “utilizzo” delle immagini del cinema in processi e setting formativi. Auspicavo, tra l’altro, un maggior dialogo tra formatori ed esperti di processi di apprendimento da un lato e studiosi ma anche e soprattutto autori di cinema dall’altro, per uscire dalla ricorrenti tentazioni autoreferenziali (in Italia, in questa prospettiva, il convegno organizzato dall’Università Bicocca nell’ottobre 2003 per il coordinamento scientifico di Fulvio Carmagnola e le sei edizioni del ForFilmFest organizzate dall’AIF in collaborazione con la Cineteca di Bologna dal 2007 al 2012 hanno rappresentato, credo di poter affermare,  delle positive eccezioni).

Ulteriori spunti di riflessione mi sono poi venuti  giorni fa dalla lettura (su “Alias”, inserto culturale de “Il Manifesto” del 10 0ttobre 2015) di ampi stralci dell’intervista allo stesso Casetti di Roberto De Gaetano, di prossima pubblicazione sulla rivista “Fata Morgana”.

A proposito  di quella duplice transizione che il cinema sta sperimentando – dalla sala buia del rito originario ai mille luoghi in cui oggi lo si consuma; dallo schermo bianco, da riempire (come la pagina bianca) di storie ed emozioni, allo schermo- display – De Gaetano parla di  “uno schermo-display in quanto schermo nero, che non contiene in sé possibilità, potenza, ma soltanto attualità, e dunque l’illusione di una esperienza (corsivo mio). Casetti, riprendendo la lezione di Benjamin (ma direi anche di Simmel) e la distinzione operata tra i due modi che la lingua tedesca ha per designare l’esperienza (Erlebnis ed Erfahrung) ricorda che anche nella lingua italiana distinguiamo tra “fare esperienza”, ovvero viverla, e “avere esperienza”, ovvero “avere tratto da quell’impatto con l’esperienza una conoscenza che ci aiuta a far fronte agli eventi del mondo”.  In questo senso, credo che anche per formatori ed educatori, e di diverse generazioni, saper connettere – con la memoria, individuale e collettiva, che è anche la memoria del cinema – il passato e il presente (attrezzandoci per gli eventi del futuro) sia una delle sfide più importanti, se si vuole evitare di restare schiacciati sul display – nero o multicolore  che sia – di un eterno presente di “attualità”.

Nel mondo di oggi, osserva nel suo saggio Casetti, “lo spettatore contemporaneo è chiamato assai meno ad avere una competenza cinematografica di quanto non sia chiamato ad avere una competenza mediale”. Ecco, credo che formatori ed educatori debbano avere entrambe queste competenze se vogliono quanto meno “orientare” individui e gruppi in apprendimento. In questa chiave, invito a leggere il testo che Pino Varchetta ha dedicato all’esperienza del ForFilmFest AIF (“La formazione ri-torna al cinema: cronaca di un quinquennio”, in Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, curato da me insieme a Dario Forti, Franco Angeli, 2011, pp. 314).

Parlando di cinema di prosa e di poesia Pasolini non affermava un aprioristico giudizio di valore. Sapeva bene, ancora 50 anni fa,  che il cinema dei romanzieri ha prodotto tante grandi e belle storie, anche quando in confezioni “di genere”, e che tanta cattiva poesia si era vista anche al cinema (o cattiva prosa con aspirazioni poetiche, e penso proprio al recente Pasolini di Abel Ferrara). Ma nel cinema di Pasolini noi sentiamo sempre la forza di una esperienza che è al tempo stesso vissuta e anche tratta. Da Accattone (1961), in cui traspone Ragazzi di vita, al suo film-testamento, quel Salò o le 120 giornate di Sodoma (che proprio il 2 novembre tornerà in sala nella versione integrale restaurata da Cineteca Nazionale e Cineteca di Bologna) il suo cinema di poesia ha saputo raccontare, attraverso i volti e i corpi, le storie degli ultimi e dei potenti, senza mai rinunciare né alla pietas né alla denuncia sociale e politica.

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