Tensione verso la qualità e la distintività

contributo di Paolo Bruttini

Ho letto con molto interesse la proposta in merito al futuro della formazione.
Dedico da venticinque anni la mia vita alla formazione degli adulti e avverto quella del formatore come una dimensione prevalente della mia identità. Anche nel ruolo di capo oppure di padre sento molto forte la spinta alla cura delle capacità di attribuire significati e ricavare apprendimenti dalle esperienze della vita. Continua a leggere Tensione verso la qualità e la distintività

Guardando alla libertà, dobbiamo evitare di limitare troppo il campo

contributo di Adelaide Sonatore

Riporto alcune mie opinioni sul convegno il cui tema è sicuramente interessante. I contributi pubblicati al tuo testo iniziale evidenziano diverse piste di approfondimento. Riporto quindi solo qualche idea a integrazione.

La prima considerazione è che non si limiti troppo il campo: quando si parla di libertà è opportuno fare riferimento a un contesto geografico e umano allargato. Cosa che ci farà tornare “a casa nostra” (alla ricognizione ragionata delle politiche nazionali e della legislazione di questi ultimi anni in tema di lavoro e formazione) più attrezzati. Abbiamo due occasioni che ci aiutano. Una è costituita dal 20° anniversario della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne – Dichiarazione di Pechino che può fornirci la possibilità di ragionare sui diritti per tutti (la libertà ha pur una base giuridica e quindi non si può eludere la questione delle politiche che la promuovono e delle norme che la regolano, anche limitandoci alla formazione e al lavoro). L’altra dall’esperienza di Malala Yousafzai (e il suo recente Nobel per la pace) in cui il diritto alla libertà di istruzione delle bambine e delle ragazze e alla sua difesa, sono concretamente e emblematicamente rappresentati.

La seconda considerazione è che libertà e partecipazione sono strettamente connesse (il contributo di Luca Fornaroli sottolinea quest’aspetto). Potrebbe allora essere interessante ragionare sugli approcci e le esperienze di attivazione di percorsi partecipativi nella programmazione e valutazione di servizi, realizzati in questi anni da istituzioni pubbliche. E sul versante delle aziende, raccogliere testimonianze delle imprese che hanno sperimentato una partecipazione dei lavoratori alla gestione (come suggerito dal contributo di Piero Trupia). E ancora capire come le regioni stanno intervenendo nell’attivare il sistema di apprendimento permanente (le Linee strategiche di intervento sono state approvate lo scorso anno dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni e alcune regioni di stanno attivando per l’attuazione del sistema territoriale).

Infine, liberare può significare richiamare a possibilità e limiti delle funzioni superiori umane. «Appoggiarsi» alle basi neurofisiologiche dell’apprendimento permanente per liberarsi dai limiti? Per mobilizzare le potenzialità? Per seguire nuove strade metodologiche? I progressi delle neuroscienze possono dirci qualcosa di utile (ricordo una relazione interessante di Alberto Oliveiro a un convegno AIF di qualche anno fa).

Noto poi che due contributi citano canzoni (Bruschi e Fornaroli): ripercorrere l’evoluzione dell’idea di liberazione o oppressione nel lavoro/dal lavoro attraverso le canzoni potrebbe essere un piccolo gioco illuminante anche per la formazione.

Self direct learning: dall’autodidattismo all’apprendimento informale riflessioni per formatori e responsabili dello sviluppo

contributo di Alessandro Reati

I formatori ed i responsabili dello sviluppo delle risorse umane si trovano sempre più spesso ad un bivio: reiterare comportamenti professionali consolidati ma talvolta poco generativi oppure provare ad esplorare approcci nuovi o non ancora molto diffusi.

In un ambiente sempre più instabile ed esigente come quello delle attuali organizzazioni, riflettere e prendere consapevolezza sul proprio e sull’altrui percorso professionale è necessario per riuscire a creare opportunità di apprendimento per i formandi, diventando concreto supporto per lo sviluppo e l’employability. Spesso si tratta di abbandonare l’illusione di governare i processi di apprendimento e di interpretarsi come attivatori e facilitatori di esplorazioni autodirette. In questo senso è estremamente utile considerare il poco comune concetto di autoformazione.

L’idea dell’autoformazione, è solo apparentemente nuova: è presente sin dall’origine delle riflessioni andragogiche e psicologiche. Averne memoria è utile per comprenderne la potenza trasformativa, ricordandone anche le linee di sviluppo che, partendo dal tema dell’autodidattismo, hanno ormai condotto alla concettualizzazione dell’informal learning del self direct learning.

La formalizzazione del concetto di autoformazione è novecentesca ma i prodromi son ben lontani. Già Platone ne valorizzava il senso, introducendo la preziosa e fondamentale relazione tra apprendimento, utilità ed etica. Nei secoli successivi i contributi furono molteplici, indimenticabili quelli di Cartesio, Rousseau, Pestalozzi, Freire.
I contributi novecenteschi (tra i molti quelli di Thorndiek, Lorge, Knowles) hanno in particolare enfatizzato il tema della componente intrinseca del processo di autoformazione: il soggetto apprende ciò lui per primo ritiene utile o funzionale, non semplicemente ciò che il contesto propone o addirittura impone. Per questo, secondo Quaglino, si tratta di un fenomeno sintonico con i processi naturali di sviluppo psicologico.

Oggi i modelli teorici che oggi maggiormente risultano utile riferimento per la comprensione del fenomeno sono quelli di Knowles, Mezirow e di Pineau. Il primo ha consolidato il concetto di apprendimenti autodiretto, evidenziando che il processo di apprendimento individuale è orientato verso l’autonomia e che la dinamica sociale tra discenti proattivi e discenti reattivi deve essere al centro delle riflessioni di formatori e docenti. Il secondo ha sviluppato la teoria della prospettiva trasformativa che, seppur spesso fraintesa, pone le basi per la comprensione dei processi di apprendimento degli adulti. In sintesi: pensiero ed esperienza sono reciprocamente influenzati, l’autoformazione è possibile solo esercitando un apprendimento strumentale, dialettico e autoriflessivo. Il terzo rinforza che l’autoapprendimento non può essere che il risultato di una eteroformazione, ossia di relazioni sociali ed ambientali.

Non dobbiamo poi dimenticare come le riflessioni sull’autoformazione siano fortemente intrecciate, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, con il concetto di Lifelong Learning. Anche questo filone di ricerca ha portato a contributi notevoli, in particolare quelli sul tema dell’ apprendere ad apprendere e sull’apprendimento in un mondo globalizzato.

Il movimento delle competenze ha poi sottolineato sin da metà del secolo scorso come la competenza sia un sovrainsieme sistemico di conoscenze, abilità e sensibilità (knowledge, knowhow, relationship). In seguito è poi stato messo a fuoco che la valorizzazione delle competenze è esito di dinamiche di sociali e di mercato, spesso con esiti ambigui, stante la contrapposta esigenza delle organizzazioni di ricercare e gestire competenze professionale e l’esigenza delle istituzioni di certificare formazioni abilitanti e titoli di studio.

L’OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development, ha infine evidenziato come cioè che si considera Lifelong learning è proprio il risultato dinamico, a livello intra personale e intra sociale, di una imprecisabile combinazione di formal, non-formal e informal learning. In particolare è proprio la componente dell’informal learning, pur con la difficoltà di una sua misurazione condivisa, ad essere l’elemento forse più pregiato e socialmente costruttivo. Proprio per questo il tema del self direct learning acquisisce sempre più importanza: per la sua centralità nel processo sociale di creazione del sapere condiviso e delle pratiche diffuse.
Non bisogna infatti mai dimenticare che la quotidianità del sapere, ossia la declinazione quotidiana in comportamenti concreti si basa sulla triangolazione tra causalità (ossia eventi passati), intenzionalità (ossia la visione del futuro) e motivazione. Per questo qualsiasi azioni mirata allo sviluppo dell’apprendimento dovrebbe essere intesa come un progetto collettivo, il cui risultato dipende anche dalla libera interpretazione dei soggetti che lo animano.

Stante queste considerazioni storiche e metodologiche, formatori e committenti di formazione dovrebbero allora sempre più abbandonare il ruolo degli esperti di contenuti e di organizzatori di seminari per trasformarsi in facilitatori organizzativi di processi sociali complessi, in cui le attese di tutti i soggetti coinvolti possano riprendere appieno dignità e valore.

La formazione dovrebbe essere un processo dialogico

contributo di Luca B. Fornaroli

Trovo l’argomento assai interessante, necessario direi, e per questo mi duole ancor di più non poter partecipare in questa occasione.
Dopo il recente convegno Este, dove da parte di alcuni responsabili hr – eicciar, come dicono loro con un automatismo verbale senza più riflettere un secondo su che cosa sia una risorsa e che cosa sia umano – si sono avute chiare dimostrazioni che la libertà e il pensiero critico che ne consegue non siano ambiti molto frequentati, mi sono sempre di più convinto che le assonanze giochino brutti scherzi: si confonde formazione con uniformazione e con conformismo.

La Formazione dovrebbe essere un processo dialogico: si costruisce almeno in due, prende “forma” dal confronto/scontro delle libertà, ha una natura creativa che la dovrebbe far convergere verso una libertà condivisa, partecipata – “libertà è partecipazione”, cantava il nostro, e lì dovrebbe essere l’habitat naturale della formazione.

L’Uniformazione sembra invece essere la caratteristica degli interventi della direzione hr: erogare un prodotto standard, che costi soprattutto poco, strutturato come bullet point da imparare, ma non da apprendere: del resto, nelle mangiatoie non si sono mai viste le mucche scegliere il menù.

Il Conformismo è il fine dell’uniformazione: adattarsi al group thinking, non steccare, leggere lo spartito, ma non intervenire sulla composizione: “non sei pagato per pensare” ho sentito dire una volta in una riunione ad una persona che aveva espresso un’opinione molto critica.

Il tutto viene giustificato dal mantra “dobbiamo vincere la sfida della globalizzazione”. Ci si dimentica tuttavia che la globalizzazione è soprattutto incontro con la diversità e che il fatto che tutti mangino hamburger o indossino jeans non implica affatto che quell’hamburger e a quei jeans abbiano ovunque lo stesso carico simbolico e siano oggetto delle stesse percezioni collettive. E si finisce così per “trans-formare” la formazione in un piatto di polpette.

Formazione libera per catalizzare il potenziale inespresso di ogni persona

contributo di Giulia Pellizzato

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sorte dalla lettura dei vostri interventi, da alcuni libri di Daisaku Ikeda sull’argomento (L’educazione Soka, 2003; Students! Be the vanguard!, 2014; Student division: the brightest stars of Soka, 2014), dalla mia esperienza personale. Chiedo scusa per la forma poco curata e forse perentoria di questi appunti, che non ho il tempo di migliorare ma che desidero sinceramente condividere prima di giovedì.
Concordo con Francesco Varanini nel credere che la formazione del presente e del futuro non può non essere formazione alla libertà. Un esempio positivo proviene dal sistema scolastico svedese, che offre agli studenti la possibilità di scegliere i propri temi di interesse all’interno di un ampio ventaglio di letture. Ciò permette di affinare capacità di introspezione, ragionamento, riflessione etica ormai imprescindibili.
Formarsi implica incontrare dei punti critici (momenti in cui si pensa “non mi raccapezzo”) che solo se affrontati e superati permettono di acquisire la necessaria padronanza degli elementi trattati. La formazione non credo dovrebbe mirare ad evitare tali scomodi frangenti, come accade nei moduli preconfezionati in cui si sa sempre a che punto si è e le soluzioni fluiscono chiare sulle slides di Powerpoint, quanto piuttosto ad accompagnare e allenare le persone a superarli.
La formazione non credo dovrebbe puntare ad altro se non alla fioritura interiore delle persone a cui si rivolge. Certamente è importante che certe conoscenze vengano trasmesse, ma ciò è solo il mezzo per permettere alle persone di operare con creatività e saggezza (vero scopo della formazione), utilizzando le conoscenze acquisite (mezzo). Scrive Ikeda: “the true purpose of education is to develop human beings. It is the process of using knowledge as the sustenance to foster people who can demonstrate infinite creativity and self-reliance. Gaining knowledge is indispensable for guiding a changing society, but knowledge itself is not the same as creativity. Education must enable us to manifest our inner potential, and learning is just a catalyst for drawing that out” (2014b, p.194-195). E ancora: “knowledge alone cannot guarantee happiness. We need to have wisdom if we are to live wisely. Knowledge is like a pump that draws up the water of wisdom. Cultivating wisdom is a shortcut to happiness” (2014a, p. 33).
Per quanto riguarda la mia esperienza con il linguaggio, che costituisce parte integrante quotidiana del mio lavoro, non credo risiedano in esso i problemi. Ritengo che il linguaggio diventi problematico quando utilizzato con arroganza, egotismo, disattenzione e non-ascolto verso l’altro. Ciò diventa particolarmente importante nell’educazione/formazione: considerato che la formazione avviene nella relazione, è fondamentale come gli educatori/formatori si relazionano.
Mi pare che le esperienze di “formatore alla pari” raccontate da Marco Bruschi e Matteo Fantoni siano particolarmente interessanti in tal senso. Quando lo scopo principale è permettere all’altro di superare un problema, magari provando gioia o altre emozioni inaspettate nell’apprendere, diventa possibile superare ogni tipo di resistenza passiva. Ciò è reso possibile anche dall’atteggiamento del formatore, che anziché rinchiudersi nell’armatura di un ruolo si relaziona autenticamente.
Una formazione in cui la relazione è autentica permette di sviluppare da entrambe le parti abilità estremamente preziose come pensiero critico, potenzialità empatiche, capacità di prendere decisioni; quando tale relazione è virtuale (possibile in teoria ma non realizzata concretamente) tali capacità tendono ad atrofizzarsi pericolosamente.
Attualmente sto svolgendo un dottorato di ricerca in materie letterarie, lavorando al contempo in ambito segretariale-amministrativo. Da questo punto di vista anfibio (né docente, né studente) osservo che i modelli e sistemi di potere attualmente vigenti nell’università tendono all’inerzia, offrendo corsi uniformanti e manifestando difficoltà ad interagire efficacemente coi giovani e la società. Credo che l’università dovrebbe essere un luogo in cui le persone possono allenarsi a sviluppare libertà spirituale e personalità creative, e credo ciò possa valere anche per la formazione in senso lato (cfr. Ikeda 2003, pp. 133-146). Mi pare che vari spunti degli interventi raccolti sinora si trovino anche in queste parole di Ikeda, che spero possano contribuire al nostro dialogo: “i veri maestri (coloro che sono genuinamente interessati alla crescita di ogni studente), perciò, sono coloro che hanno l’umiltà di avanzare assieme ai loro studenti. L’educazione non deve mai essere imposta. Il cuore dell’educazione si trova nel processo d’apprendimento che coinvolge sia l’insegnante sia l’alunno, con l’insegnante che fa emergere il potenziale dell’allievo e lo educa a sorpassare il maestro” (2003, p. 157).

Un nuovo linguaggio per una nuova formazione

contributo di Giorgio Ortu

La formazione non può fare a meno di un’analisi della struttura ontologica e del significato del linguaggio.
Ebbene, ho parlato altrove della contraddizione che è solo del pensiero e non della realtà oggettiva. Ma non c’è da scherzare, perché la potenza della Ragione è capace di distruggere anche molto in profondità, certo pensieri, ma bisogna stare attenti a non prendere i pensieri come realtà oggettiva. Perché se è vero che i pensieri, espressione della Ragione, hanno sempre un riferimento alla realtà (psicologica, sociale, materiale, scientifica, matematica, ecc.), le contraddizioni o i paradossi che si creano nel linguaggio dipendono unicamente da un problema di linguaggio, esprimono un limite ontologico del nostro linguaggio astratto. E se il linguaggio si sovrappone alla realtà, che pure pretende di descrivere, allora non c’è corrispondenza tra nome e cosa (il concetto di “nomenclatura” di Aristotele e riferito al linguaggio ha trascurato erroneamente l’insegnamento di Parmenide e Gorgia). Infatti, come insegnarono Gorgia e Parmenide noi diciamo “nomi” e non “cose”, intendendo con questo che la comunicazione non avviene sulla realtà, ma sul linguaggio che la designa.
Ma io aggiungo: diciamo “nomi” in senso ancor più radicale, nel senso che la “cosa” risulta costruita dal “nome”. La “cosa” è quindi un artifizio, non esiste in sostanza. Questo limite del nostro approccio al Reale trova la sua origine negli schemi. Senza gli schemi l’umanità non avrebbe potuto inventare questo tipo di linguaggio. Il linguaggio grazie agli schemi quindi organizza, struttura, determina la realtà, la porta a compiutezza, la articola in un sistema. Sono gli schemi spazio-temporali, che si formano già nel feto umano, che consentono di creare, dal caos del magma immediato qual è la realtà in sé, un ordine oggettivo, un’immagine a forma di struttura stabile, e quindi per certi aspetti prevedibile, della realtà oggettiva. Il linguaggio ha seguito questo tipo di intervento sull’oggettività operato dagli schemi, e la fine di questo processo di formazione del linguaggio astratto coincide esattamente col Neolitico. Nel Neolitico finalmente gli uomini vivono in un mondo ordinato, scandito da ritmi regolari, perché il loro linguaggio è finalmente una struttura stabile e restituisce un mondo ordinato, così che hanno potuto inventare l’allevamento e l’agricoltura, l’artigianato. E nascono anche i primi miti, nei quali la tribù del villaggio è la razza umana per eccellenza, perché le sue origini sono divine, e dunque l’origine del cosmo è legata all’origine dell’uomo.
Gli schemi sono il “peccato originale”, il linguaggio è innocente quanto a strutturazione dell’oggettività. Ma strutturare vuol dire appunto inventarsi un ordine, che in sé non esiste -o almeno noi che siamo confinati nel linguaggio non lo conosciamo-, ma se è così allora tutti i nostri pensieri (a parte l’intuizione|) espressi nel linguaggio sono fallaci o almeno parziali.
La “realtà” che il linguaggio restituisce a chi parla -o a chi pensa per parole, non per immagini o intuizioni…-, non è reale. Ogni parola risulta così astratta, incapace di dire l’immediatezza del reale. E sia che io ti dica “questa è una rosa”, oppure “adesso sta piovendo”, o “guarda che bella luna che c’è in cielo”, sto semplicemente astraendo o isolando in astratto un’infima parte di realtà oggettiva dalla totalità che è il Reale in sé. Mi potresti dire, “ma come vivere e comunicare allora, se non attraverso questi universali linguistici?”. Ti potrei dire allora che la rosa ha un ramo spinoso che fa parte di una pianta, che il roseto è dentro il terreno per il tramite dei suoi rami e delle sue radici, che questo roseto è magari in un campo, arato o incolto, il quale potrebbe essere in un’isola, vicino ad altre isole e accanto a un continente, e ci sono altri continenti e altro mare che tutti insieme formano un pianeta, che questo pianeta fa parte di un sistema, che a sua volta, ecc. ecc. Tu mi dirai allora che tutte queste cose sono implicite nell’espressione “questa è una rosa”, e che non potremmo comunicare affatto se ogni volta dovessimo parlare di tutte le connessioni, della totalità, pur sempre, bada bene, già strutturata… E io allora ti rispondo così: non solo la presenza dell’implicito, o forse meglio del “nascosto” -perché si dimentica e il linguaggio diventa automatismo-, dell’inespresso, sono un grave danno alla nostra umanità perché perdiamo di vista la totalità, e ci è impedito in questo modo di percepire e gustare la bellezza del reale, ci è impedito di “sognare” (e Nietzsche ne “La nascita della tragedia” vedeva proprio nel sogno la forma di liberazione), non solo facciamo del linguaggio un “idolo” o un’ipostasi prendendolo per magica sostanza, diventando capaci di “uccidere” con le parole, scaricando in esse tutto il nostro livore, tutta la nostra marcia aggressività, tutti i nostri complessi maledetti, contrapponendoci agli altri e così creando inimicizia e odio e violenza; ma anche e forse soprattutto ci esponiamo ai distruttori del linguaggio che, a partire da Zenone d’Elea, giocando col linguaggio hanno voluto distruggere la stessa realtà. La realtà però esiste ed è ben salda.
Il problema autentico è come fare per conoscerla veramente. Ci sono quindi i paradossi del linguaggio (i paradossi antichi di Zenone, i paradossi moderni che hanno provocato la cosiddetta “crisi dei fondamenti” nella logica e nella matematica del primo Novecento), che sono proprio ontologici allo stesso linguaggio astratto, anzi, io dico, definiscono il linguaggio. Per la ragione che si tratta di un linguaggio che si è formato per accumulazione di astrazioni successive, senza un progetto o un programma consapevole da parte dei parlanti primitivi, che quindi si espone inevitabilmente agli attacchi corrosivi di una Ragione demolitrice, che trova buon giuoco nel trovare contraddizioni al suo interno. E contraddizioni se ne possono probabilmente creare una quantità enorme. Addirittura forse ogni espressione può essere dimostrata vera e falsa allo stesso tempo, cioè ogni espressione può essere contraddetta. Il che fa spavento. E tuttavia è ovvio che non si tratta della banale e talvolta idiota “contraddizione” cui si assiste nei dibattiti politici, no, è una contraddizione secondo le regole della logica. E però ribadisco -ed è una salvezza!-, non è una contraddizione oggettiva -ché se esistesse saremmo impossibilitati a vivere, non solo per l’impossibilità di conoscere la realtà, ma soprattutto perché questa si annienterebbe a causa delle contraddizioni, come accade quando materia e antimateria collidono, che appunto si annullano in radiazione- ma solo una contraddizione logica, del pensiero, soggettiva, espressa appunto dal linguaggio e determinata dallo stesso linguaggio. (Hegel invece prese la contraddizione per oggettiva: penso che nella sua povertà intellettuale dovette aver intuito oscuramente qualcosa del linguaggio, ma era troppo limitato per scoprirne la reale natura. E questa oscura e inconscia intuizione la espresse nella sua barbara forma di linguaggio, contorta, oscura).
Dunque, tu mi dici “questa è una rosa,”? E io ti rispondo così: questa non è una rosa, prima di poterlo dire mi devi dire quanti petali ha e di che misura sono, e di che colore sono, e prima ancora quando è sbocciata, e quando appassirà… Ti impedirei di dire “questa è una rosa” perché ti tempesterei di domande di integrazione e ci potremmo stare degli anni a “discutere”, e alla fine tu ti dovresti arrendere e ammettere che non puoi dire “questa è una rosa”. Già. Avevi notato? Il linguaggio opera una colossale semplificazione del reale, anzi meglio, una colossale falsificazione (Apro una parentesi. Per questo Derrida è banale, perché non ha capito che la semplificazione sta alle radici del linguaggio, non ha il suo fondamento negli inganni del potere, ma si annida all’interno di quello, lo qualifica e definisce -certo il potere semplifica ulteriormente per ingannare il popolo, ma lo può fare perché questo linguaggio glielo consente|).
Quindi, mi dici, come si può contraddire l’espressione “questa è una rosa”? Così amico mio, questa non è una rosa, questa è una mano, una mano e una rosa se vuoi, una “manrosa”… Ma no, lascia perdere la mano, la vedi questa rosa che tengo in mano? Appunto, io vedo una rosa e una mano, potrei dirti che si tratta di una mano e non di una rosa…
Questi sembrano giochetti banali perché non sono usuali, perché in ogni persona c’è un habitus consolidato a dare per scontate, per implicite le cose, ci sono degli automatismi che abbiamo acquisito, così che parliamo e comunichiamo molto velocemente, senza consapevolezza di ciò che sta sotto al nostro linguaggio.
Ma andiamo oltre i “giochetti”. Tu mi dici: “definisco la bellezza il massimo cui possa aspirare un uomo.”. Io potrei essere anche d’accordo, ma ti voglio contraddire. Per cominciare ti direi di dare una definizione della bellezza in se stessa, e non in riferimento a qualcos’altro. Ma tu mi dici, la bellezza è piacere, è pace, è sogno, è beatitudine e grande emozione… -Giusto, rispondo io, ma forse mi dovresti dare una definizione fondata sull’intuizione, dire una o poche parole o immagini capaci di “esplodere” su questa idea, sulla bellezza appunto, farla esplodere in modo che produca in me delle emozioni, delle immagini e delle emozioni. Ma come tutti, ahimè, non sei abituato alle intuizioni, maneggi gli universali e la logica, ma si tratta di argomentazioni, catene di deduzioni, non di intuizione. Perché l’intuizione è folgorante, appunto, esplode sul reale.
Quindi siamo ancora andati a vuoto, nel senso che il linguaggio è in difficoltà.
Eppure tu dici ancora: un linguaggio capace di parlare di se stesso ha una potenza notevole. Ti contraddico subito dicendo che non è del linguaggio la potenza, ma della Ragione. E’ la Ragione che unifica il linguaggio, lo porta a unità, E’ essa che scioglie le contraddizioni prodotte dal linguaggio. Il linguaggio è strumento.
Ti faccio l’ultimo esempio. Cercherò di dimostrarti una proposizione come possibile e a un tempo come impossibile. Si dice che Zenone d’Elea ci riuscì -ma non ci è rimasta la sua argomentazione-, Giorgio Colli invece nega che una dimostrazione del genere possa essere avvenuta. Riguarda il sole che sorge o non sorge domani. Ebbene, abbiamo: 1) è possibile che domani il sole sorgerà; 2) è impossibile che domani il sole sorga. Io dico: -1) Non mi puoi contestare il fatto che sto parlando solo di possibilità, e non di necessità. Dunque, ritengo possibile che domani il sole sorgerà perché così, da quando la terra esiste, è sempre stato… -2) Ritengo invece impossibile che domani il sole sorga appunto perché la terra sta rallentando il moto di rotazione attorno al proprio asse e nel giro di una notte si fermerà del tutto, quindi il sole non sorgerà|… Ma un momento…, qui siamo nella sfera dei fenomeni oggettivi. Siamo cioè nel “regno” squallido dei “dibattiti” politici di italica fattura… Non va bene, bisogna entrare nel cuore della logica.
Entriamo allora in un terreno strettamente logico. Però tu ribatti pronto al mio tentativo maldestro di argomentazione oggettiva: la tua impossibilità non è tale, ma è semplicemente una possibilità, cioè per le ragioni che hai detto, è possibile che domani il sole non sorga. No, amico mio, dico io, tu non hai ragione, perché io ora sposto il discorso sul piano della logica. E allora potrai vedere che abbiamo anche un’ impossibilità che contraddice la possibilità, e io ti voglio dimostrare che sono entrambe vere, o meglio, che si convertono l’una nell’altra, contraddicendosi e annullandosi.
Affronterò ora da diversi punti di vista il rapporto Possibile-Impossibile, e si vedrà che tutti giungono alla conversione del Possibile in Impossibile e viceversa. Cominciamo con la proposizione “E’ impossibile che il sole sorga domani”. Quale sarà la sua contraddizione, quella secondo cui è possibile che il sole sorgerà domani, o quella che dice essere necessario che il sole sorga domani? Diciamo che l’affermazione E’ impossibile che il sole sorga domani viene contraddetta da questa, E’ possibile che il sole sorgerà domani. Ora, se è vero che principio della modalità è che un oggetto espresso dal linguaggio è contingente (cioè possibile) o necessario, è anche vero che il necessario (è necessario che sia o è necessario che non sia) può essere volto in impossibile (è impossibile che non sia, o è impossibile che sia). Quindi avremmo che l’oggetto sarebbe o contingente-possibile o necessario-impossibile (che non sia). Ma possibile e impossibile ( cioè, necessario che non sia) si contraddicono per il tramite della necessità negativa. Proviamo allora a vedere come l’impossibile si converta in possibile. Risulta quindi che l’oggetto possibile espresso dal linguaggio non è tale per cui è o non è, ma è piuttosto tale che è e non è. In dettaglio i passaggi della conversione sono questi: l’impossibile è una categoria “assoluta” (come il necessario). Ma l’assoluto, sul piano dell’ “oggettività”, non ha bisogno di niente accanto a sé, se è tale, sennò sarebbe relativo. Ma siamo certi che l’impossibile sia davvero un “assoluto”? Diciamo in prima approssimazione che l’impossibile -questo presunto assoluto- trapassa nel possibile -vale a dire nel relativo data la sua indeterminatezza-, perché quello come tale è costituito di determinatezza, ma questa determinatezza che lo isola è anche la sua rovina che lo conduce dritto all’indeterminato -cioè al possibile-, visto che come assoluto, che non avrebbe bisogno di altro da sé, perderebbe come tale la propria assolutezza e isolamento, e appunto sconfinerebbe nell’indeterminato e nel relativo, quindi nel possibile, a causa dell’inevitabile contatto con altre realtà. Quindi sembra che l’impossibile non sia un assoluto. Vuol dire questo che intendere la categoria dell’impossibile come “assoluto” significa vederla come ipostasi, come sostanza oggettiva (magari dotata di “anima vivente”)? E’ ovvio che non intendo nulla di tutto ciò. Intendo invece parlare di “assolutezza” e “isolamento” dal punto di vista della struttura del linguaggio, nel senso cioè della “collocazione” di questa categoria nello schema articolato del linguaggio. Ebbene, risulta allora che l’impossibile, per il tramite del necessario, non è affatto un assoluto “in sé e per sé” (soggetto sostanziale autonomo), ma è tale solo “in sé”, (cioè nella sua immediatezza) , e che quindi esiste il legame col necessario, inteso come detto sopra, che lo aggancia immediatamente al possibile, convertendolo in possibile. Questo accade perché la proposizione E’ necessario che non sia (o E’ impossibile che sia) equivale a questa, Non è possibile che sia. Ma Non è possibile che sia si può convertire in E’ possibile che non sia. A prima vista questo non sarebbe consentito, perché la prima proposizione nega proprio la possibilità, mentre la seconda consente la possibilità (sia pure negativa). Ma dato che la possibilità può essere sia negativa che positiva in realtà però la suddetta conversione è ammessa logicamente vista la successiva equivalenza logica tra E’ possibile che non sia e E’ possibile che sia. Non si scappa, queste ultime due sono “solo” due possibilità che non si contraddicono e che si oppongono solo “di nome”, ma non logicamente. Quale sarà allora la sintesi tra le due possibilità equivalenti tale per cui l’impossibile si converte in possibile? La sintesi sarà questa: E’ possibile che sia o che non sia! La disgiunzione qui non ha valore assoluto, perché siamo nel campo del possibile. Eppure, è il fatto che siano vere ciascuna in se stessa e vere nel loro insieme che le rende viceversa paradossalmente “assolute”; e sarà allora proprio questa assolutezza che le isola a richiamare la proposizione E’ impossibile che sia -o Non è possibile che sia-, di modo che questa si converta (o equivalga a) nel possibile come “assoluto” -nel senso detto-, appunto per la ragione che a un “assoluto” (possibile o non possibile) si può mettere in rapporto il necessario (che non sia) –o l’impossibile che sia, o il non è possibile che sia-, altro “assoluto” perché esprime una negazione totale o un’impossibilità, sul quale quello “cade” fino a identificarvisi convertendosi in esso, cioè nell’impossibile, il quale quindi a sua volta diventa possibile, come per analogia accade nella proprietà commutativa dell’addizione dove cambiando o invertendo gli addendi la somma non cambia.
Per contro si può mostrare come il possibile si converta in impossibile, cambiando un po’ i termini del discorso. Il possibile (o il contingente) esprime un oggetto che è e non è. Quindi io posso dire “è possibile che il sole sorga domani” e “è possibile che il sole non sorga domani”, senza nessuna contraddizione, perché le due proposizioni hanno lo stesso valore di verità prese ciascuna per stessa, pur essendo opposte. Ma se io considero le due proposizioni come un insieme, come una coppia, il discorso può essere mutato. Se infatti nessuno può negare che il possibile, come potenzialmente effettuale, ha in sé la potenzialità a diventare tale, contiene in sé una ”dynamis”, una spinta a diventare effettuale, e questo come significato della parola possibile, proprio “oggettivamente” intesa, allora il paradosso, che spiana la strada poi all’ingresso in campo dell’impossibilità, nasce dall’equivalenza logica tra due opposti, che pur non contraddicendosi, perché non recano il segno della necessità, hanno tuttavia il destino di annullarsi a vicenda per via del fatto che non possono essere entrambi veri, nel significato ovvio che non possono diventare effettuali tutti e due simultaneamente. Ed è questa impossibilità che fa perdere loro la “dynamis”, una volta che sono state accostati e presi in coppia. Quindi, ciascuno, preso per sé, è vero, ma il prenderli in coppia li rovina. Quindi la loro rovina fa entrare in scena proprio l’impossibile! Siamo ancora nel piano della logica, con un aggancio possibile alla realtà effettuale
Vediamo ora la stessa questione -cioè la ricerca di contraddizioni che si annidano nel discorso- sempre studiando il rapporto possibile-impossibile. Dunque, E’ possibile che il sole sorgerà domani, E’ impossibile che il sole sorga domani. La categoria del possibile è aperta, indeterminata, quindi è in contraddizione con la necessità (per esempio, E’ necessario che il sole sorga domani, contraddice E’ possibile che il sole non sorga domani). Per trattare quest’ultima proposizione restando nell’ambito della logica dobbiamo anzitutto isolarla dall’altra proposizione. Allora risulta che grazie alla sua apertura e indeterminatezza non è in contraddizione con niente, e risulta immediatamente vera, quindi dimostrata in se stessa. Ma vediamo la categoria dell’impossibile (E’ impossibile che il sole sorga domani): domani dunque il sole non sorgerà perché è necessario che non sorga, quindi è impossibile che sorga. E ciò perché la necessità è una categoria modale che sta per sé, stringe la realtà attorno a sé ed è opposta al possibile, ma come tale sovrasta il possibile, lo ingloba annullandolo. Quindi ciò che in se stesso risultava aperto e immediatamente vero, ora risulta annullato. Il possibile è in contraddizione col necessario, quindi per converso il necessario che non sia o l’impossibile che sia risulta essere dimostrato dall’azzeramento del possibile compiuto dall’impossibile, cioè il possibile risulta azzerato in rapporto all’impossibile, per una via puramente logica, con altri termini del discorso.
Vediamo ora ancora meglio e più in dettaglio il primo caso dell’impossibile che si converte nel possibile. La proposizione E’ possibile che il sole sorga domani, è aperta e indeterminata, si è detto, è dotata di libertà, e come tale va vista in se stessa, isolata beatamente e quindi vera e dimostrata in se stessa. La proposizione che la contraddice, invece, E’ necessario che il sole non sorga domani, o E’ impossibile che il sole sorga domani, necessita per essere dimostrata dei seguenti passaggi:
1) E’ necessario che il sole non sorga domani;
2) Ma se è necessario che non sorga, allora Non è possibile che sorga (ma in tal modo si può anche dire che E’ impossibile che sorga) .
3) Quindi allora abbiamo (per la conversione legittima già effettuata nel primo caso) E’ possibile che non sorga.
Qui, con l’inclusione di questa proposizione nella seconda (Non è possibile, ecc.) abbiamo guadagnato un passaggio logico che ci consente di passare all’equivalenza secondo cui, se E’ possibile che non sorga, sarà anche possibile che sorga. E queste due proposizioni non sono in contraddizione, appunto perché il possibile è indeterminato, ma in quanto indeterminato o incompiuto si può anche dire che aspetti il suo compimento. E’ essenziale notare qui che il passaggio dalla seconda proposizione (Non è possibile che sorga), alla terza (E’ possibile che non sorga), è logicamente ineccepibile, eppure apre una crepa nell’argomentazione, esprime un limite o una contraddizione del linguaggio, appunto perché la terza proposizione (E’ possibile che non sorga) può essere contenuta nella seconda proposizione (Non è possibile che sorga), ma non la esaurisce affatto, perché la negazione della terza proposizione risulta essere solo una possibilità, non una certezza o una necessità, mentre la ferrea necessità è presente nella seconda proposizione (non è possibile che sorga). Cioè il necessario (non è possibile che sorga) ingloba in sé il possibile (E’ possibile che non sorga) e lo include senza contraddizione. La contraddizione quindi non è nel necessario ma nel possibile! La possibilità contraddice la necessità dell’impossibile, il possibile si è rivelato più potente dell’impossibile, perché è “venuto a patti” con l’impossibile (o la necessità che non sorga ecc.), mentre prima abbiamo visto che al contrario era l’impossibile che distruggeva il possibile!…
Detto in termini più semplici, ancora il possibile, il libero e indeterminato che “sconfigge” l’impossibile o il necessario. Se io dico E’ impossibile che il sole sorga domani, vale come dire E’ necessario che il sole non sorga domani. Ma se è necessario che non sorga, allora non è possibile che sorga, ma Se non è possibile che sorga è anche Possibile che non sorga, nel senso che questa possibilità che non sorga è contenuta nella prima (nella non possibilità che sorga), anche se ovviamente non la esaurisce. Ora però, se è Possibile che non sorga è anche Possibile che sorga, ma ciò contraddice la prima proposizione secondo cui è Impossibile che sorga. La crepa nel linguaggio che così si apre è consentita -ribadisco- dal fatto che prima si è inclusa la Possibilità che non sorga nella Non possibilità che sorga, e ciò genera una contraddizione, tuttavia il passaggio o inclusione di E’ possibile che non sorga in Non è possibile che sorga è legittimo perché inevitabile. Il passaggio è inevitabile -anche se contradditorio- perché qui abbiamo una necessità (Non è possibile che il sole sorga) e una possibilità negativa (E’ possibile che non sorga), che conduce dritta quest’ultima e nel senso della sua parte di possibilità a tale inclusione, che quindi risulta paradossalmente legittima. E in un secondo momento si è associata la possibilità che sorga alla possibilità che non sorga, e prendendo insieme queste due possibilità si entra in contraddizione con l’impossibilità, perché le due possibilità sono esaustive e totalizzanti, mentre l’impossibilità lo è pure data la sua “rigidità”. Quindi la contraddizione è finale, nel senso appunto che l’impossibile soccombe, ma in verità soccombe anche il possibile!…
Quindi per concludere, la chiave che consente l’apertura della porta della conversione di Possibile a Impossibile e viceversa, è tutta nell’equivalenza (o nell’inclusione) posta tra Non è possibile che il sole sorga domani, e E’ possibile che il sole non sorga domani. Se io dicessi E’ necessario che il sole non sorga domani avrei detto la stessa cosa di Non è possibile che il sole sorga domani, ma ho solo detto E’ possibile che non sorga. Il possibile non è un assoluto, ma è un relativo, un indeterminato, che come tale è in contraddizione con la necessità se lo si mette in relazione a questa. Ed è proprio per questa ragione che la proposizione E’ possibile che il sole non sorga domani può essere inclusa in Non è possibile che il sole sorga domani, appunto perché quella non esaurisce questa, la possibilità non esaurisce la necessità, e quindi non distrugge la contraddizione tra possibile e necessario.
Tutto questo discorso, che a uno sguardo immediato potrebbe apparire come sofistico, o addirittura come devastante, perché sembra distruggere idee consolidate come il possibile e l’impossibile, vuole semplicemente significare che il linguaggio astratto non ha una struttura veramente logica e razionale, ma è piuttosto un assemblaggio irrazionale, un aggiustamento molto posticcio. E’ solo la potenza della Ragione che può tenere a bada le crepe e le contraddizioni, e costruire una qualche unità laddove esiste dispersione. Quindi, le trasformazioni compiute ci hanno condotto a delle contraddizioni. Questo accade in particolare quando si ha a che fare con l’infinito (cfr. le aporie di Zenone) oppure con parole che recano l’impronta di un qualche “assoluto” (impossibile e necessario, possibile e impossibile). Sicché risulta che la proposizione E’ impossibile che il sole sorga domani si autodistrugge, così come si autodistrugge l’altra, E’ possibile che il sole sorga domani, accoppiata al suo contrario E’ possibile che il sole non sorga domani. Quindi, se dimostrare vuol dire imprimere all’argomentazione il segno della necessità logica, allora il fatto che queste due proposizioni contradditorie si siano annullate o autodistrutte, poiché distruzione e annullamento sono sotto il segno della necessità, significa che in un certo senso sono state dimostrate, cioè ne è stata dimostrata la loro inconsistenza. Ma il mondo va avanti lo stesso! E noi continueremo a servirci, finché avremo questo linguaggio, delle categorie del possibile e dell’impossibile. Ma con l’avvertenza che non hanno fondamento logico e non corrispondono a delle realtà oggettive sostanziali, ma sono solo un nostro modo approssimato di interpretare il mondo dei fenomeni.
Nel senso che questa è solo logica. E allora anche smettiamola di fare della logica un’ipostasi -come se non potessero esistere altre logiche-, e vediamo piuttosto se riusciamo a inventarci un altro linguaggio che non permetta queste trappole. Allora, se noi avessimo un linguaggio diverso, avvolgente, totalizzante, capace di esplodere sul reale, e non invece un linguaggio fatto di schemi semplificatori, queste contraddizioni non esisterebbero, perché, ribadisco: la realtà non tollera contraddizioni! Insomma, non bisogna prendere questo nostro linguaggio astratto, storicamente determinato, come un assoluto metastorico da cui non si possa sfuggire. Perché, appunto, esiste anche un altro linguaggio, semplicemente da costruire… Un linguaggio in cui i “nomi” siano capaci di aggregare più “cose” contemporaneamente, da vedere in relazione immediata tra di loro, “cose” che si distinguono da altre dal contesto discorsivo, non semplicemente omonimi, ma più che omonimi, costrutti, costrutti concettuali validi nel discorso quotidiano, nella scienza e nella filosofia; spezzare dunque anche la tirannia antieconomica e dispersiva dei sinonimi. Nomi tali che certo sarebbero più vicini alla totalità magmatica in sé che è il fondo del Reale. Un linguaggio appunto “possibile”, un linguaggio che è “impossibile” che non esista!… Da costruire.
Formazione nuova e avanzata vuol dire quindi anche cominciare a occuparsi del nuovo linguaggio come necessità urgente.

Una formazione italiana, per l’Italia, per il suo sistema produttivo

contributo di Piero Trupia

La formazione AIF, praticata dai suoi aderenti e proposta all’attenzione del paese, è in primo luogo da caratterizzare come formazione italiana, per l’Italia, per il suo sistema produttivo. Essa pertanto si libera dalla soggezione intellettuale verso altri modelli di successo, in primo luogo, il modello USA, che peraltro ha mostrato i suoi limiti, anche in patria nel 2008, con l’innesco di una crisi economica divenuta mondiale.
La società italiana è ben diversa da quella USA, giapponese, coreana, anglosassone in generale e possiede peculiarità positive. Tra queste un’impresa familiare dotata di una forte coesione interna e una produzione di genius loci, da cui nasce la tipizzazione del made in Italy. Questo comparto ha tenuto durante la crisi, addirittura consolidando la sua posizione nel mercato globale.
Il problema aperto e specifico del sistema produttivo italiano è l’inefficienza del sistema pubblico d’ indirizzo e di governo dell’economia. La sua crisi ha natura strutturale e culturale e su di essa la formazione italiana e l’AIF non possono non pronunciarsi e non possono non impegnarsi nel ricercare modelli formativi specifici. Un benchmark negativo al riguardo può essere la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione che non è riuscita a innovare la cultura della classe burocratica di nuova generazione per la renitenza ad uscire da una cultura amministrativa rimasta quella sabauda.
Altro aspetto su cui il sistema pubblico di governo dell’economia – amministrativo e politico – si è rivelato non all’altezza è quello del lavoro. Si è enfatizzata la sua incidenza sul costo del prodotto in una fase in cui il progresso della produttività l’ha ridotta. Si è così favorita la tendenza emotiva delle imprese a ridurre il carico lavorativo in sé, con licenziamenti e mancate assunzioni, e se ne è ridotto il costo con il precariato. Il jobs act risponde parzialmente alla necessità d’invertire una tale tendenza, resa necessaria dalla lamentata stagnazione dei consumi.
Continuare in questa lotta al lavoro sarebbe devastante per due ragioni:
si mortificherebbe il ruolo del lavoro nel sistema produttivo italiano che, al contrario, va esaltato, vista la caratteristica di genius loci della nostra produzione, non solo nel lusso, nell’arredamento e nell’agroalimentare, ma anche nella meccanica, nella utensileria, nella robotica e nel biomedicale;
si aggrava la crisi dei consumi per la ridotta distribuzione del reddito conseguente alla mancanza di lavoro e alla sua condizione precaria.
Sono due problemi, la cui soluzione richiede un’aggiornata cultura pubblica sul lato politico e su quello amministrativo. Un’esigenza sulla quale l’AIF può far sentire la sua voce.
Testimonianze positive e autorevoli d’intervento privato sulla cultura pubblica sono quelli quarantennale del CENSIS e quello, in atto da pochi anni, della CGA (Confederazione Generale dell’Artigianato) di Mestre.
Nel dire di Francesco Varanini una formazione liberata è quella consapevole del proprio ruolo e della sua specificità liberante.
Il formatore libero e liberante è autorevole nell’ambito professionale e nello spazio sociale. A tal fine il formatore deve essere consapevole del contesto della sua attività, precondizione per essere incisivo, e deve essere culturalmente indipendente.
Un aggiornamento necessario per il formatore italiano riguarda la dimensione economica dell’impresa insieme a una capacità di valutazione critica delle carenze e delle contraddizioni della dottrina economica vigente, che appartiene al moderno e non al postmoderno, nonché una conoscenza degli stakeholder politici e amministrativi del sistema produttivo e, di riflesso, di quello formativo. Riguarda anche il ruolo del lavoro nei sistemi produttivi odierni, che ha da essere sempre più qualificato e professionale.
Infine la sottolineatura di un’impresa pacificata con una partecipazione generalizzata alla gestione che ne fa un’avventura comune nel senso di venture, o, nella nostra lingua, impresa conviviale. In Germania il lavoratore a tutti i livelli non è un dipendente ma un collaboratore (Mitarbeiter) e i suoi rappresentanti siedono nel consiglio di amministrazione (Mitbestimmung).

 

Ringraziando gli dei, affrontiamo il tema della formazione

contributo di Giorgio Ortu

Il problema della formazione è urgente ed enorme. Bisogna reinventarsi una didattica, ma non partiamo da zero, perché i supporti informatici non potranno, e non dovranno!, sostituire l’oggetto fisico-libro cartaceo.

In un mondo globalizzato e sempre più artificiale (o meglio, virtuale) si perde inevitabilmente il contatto con la realtà materiale –unica relazione capace di mantenerci in salute psicologica e di stimolare la nostra sete di conoscenza: un esempio clamoroso di tale perdita di contatto con la realtà è la fortuna che ha avuto per decenni una filosofia balorda come il post-moderno, la cui origine è appunto la sensazione -volta paradossalmente e inconsciamente in positivo- che l’unica realtà sia appunto quella edificata dagli uomini.

Ma ci sono ancora due conseguenze nefaste quando la realtà si allontana dalla mente: una è l’impoverimento simbolico, visibile a tutti e che già nei primi decennio del secolo scorso Jung aveva individuato; l’altra conseguenza è la perdita di potenza degli schemi, che pure sono natura e senza i quali è impossibile condursi nel mondo per la vita immediata.

E poiché seguendo Platone diciamo che scopo della vita umana è la conoscenza, ecco che oggi il libro, come d’incanto, ne viene rivalutato. Il libro come oggetto materiale e fonte di conoscenza è allora necessario -per la salvezza umana- che duri ancora per molto (diciamo finché l’uomo resterà Sapiens, dunque ancora 20-30.000 anni? Direi di sì!), e ciò perché consente, grazie alla sua consistenza fisica, di toccare e odorare: toccare, cioè, come diceva Aristotele, arrivare alla verità, poiché questa è un toccare e un vedere; odorare, vale a dire immergersi nella meraviglia del sogno che inebria la mente, sentendo il profumo che emana da un libro intonso. Questo toccare e questo odorare sono capaci di connettere la conoscenza astratta alla concretezza, alla materialità.

Vedo molto male un mondo prossimo futuro in cui l’acquisizione del Sapere diventa un fatto automatico sia pure mediato dal senso critico che orienta nella ricerca. Perché la conoscenza ha il suo lato profondamente umano nella socialità e nella concretezza materiale, che solo il libro può dare. Lo so, anche il tablet è un oggetto materiale, ma a differenza del libro non ha odore, e non ci puoi “pasticciare” o annotare sopra -ah certo, di sicuro nel mercato comparirà anche un tablet del genere, anzi, c’è già…, ma, a parte l’odore, è una non trascurabile fonte di schizofrenia quella di “pasticciare” con una matita particolare un aggeggio elettronico pieno di luci, poiché la manualità della scrittura è un gesto antico e profondamente umano, che diventa astratto quando si applica al tablet, perché il tablet è solo bit di informazione.
Di sicuro però c’è che un testo digitale può essere modificato a piacere, e questo è un

vantaggio non trascurabile per chi scrive. Io stesso mi trovo perfettamente a mio agio con la scrittura elettronica, e anzi dirò che addirittura sono più creativo quando uso il computer di quando scrivo a penna. E allora? Il riferimento alla scrittura era solo incidentale, non voleva essere una svalutazione del mezzo elettronico, che per fortuna abbiamo e dobbiamo e possiamo usare proficuamente. No, il discorso riguarda le capacità di “formazione” alla conoscenza degli apparati elettronici e il libro come formatore, non solo alla conoscenza ma anche alla vita. Ed emerge qui secondo me che il libro risulta fondamentale, e, ripeto, lo sarà ancora per molto tempo.

E poiché non credo che la realtà oggettiva abbia in sé delle contraddizioni ma supporti solo delle opposizioni (senza contraddizione) e dei contrasti -perché la contraddizione è lecita nell’arte e nel pensiero ma non nell’oggettività-, penso che bisogna ringraziare gli dèi per il fatto che abbiamo dei problemi da risolvere, come il problema della formazione, i soli capaci di dare un senso all’esistenza.

La formazione che non esiste

contributo di Marco Bruschi

Il titolo del Convegno Nazionale Aif di novembre potrebbe essere “Liberare la formazione”, come viene raccontato nel post dell’organizzatore incaricato, Francesco Varanini. Nel post viene espressa la possibilità/necessità di liberare la formazione dalle consuetudini.

Penso che si possa addirittura andare oltre. La formazione dovrebbe essere liberata anche dalla parola formazione. Se ci si continua a proporre come “formatori” la cosa può continuare a essere percepita come insegnante-studente, come piedistallo-plebe, alto-basso.

Il formatore dev’essere percepito a latere. Continua a leggere La formazione che non esiste

Liberare spazi per la nostra formazione, per fare formazione, per essere formatori

contributo di Matteo Fantoni

Devo confessare che fino a quando non mi è accaduto di essere licenziato, non ho mai pensato davvero alla mia formazione. A cosa significasse per me e cosa significasse per le organizzazioni in cui operavo. Anzi ero convinto di non aver bisogno di nulla. Per il mio lavoro ero completamente autosufficiente. Non avevo nulla da imparare. Ero saturo. Certo, partecipavo ogni tanto a qualche occasionale corso aziendale. Ma senza grande entusiasmo o attesa. Dopo il licenziamento mi sono accostato al tema, ma forse ancora in una logica di come valorizzare il mio cv. Fare formazione era un modo di aggiungere un titolo per farmi notare dai cacciatori di teste. C’erano però dei pensieri che agitavano e che avevano a che fare non tanto con cosa dovessi imparare, ma come potessi imparare di nuovo. Dopo una laurea in Filosofia, conseguita con grande passione, avevo continuato a leggere, ma come un fenomeno carbonaro, di nascosto. Con gli occhi di oggi, potrei dire che ero alla ricerca di spazi di libertà, di momenti di autenticità. Di qui l’incontro con Assoetica e poi con Ariele e la scoperta che la formazione poteva essere qualcosa di completamente diverso da quello che mi aspettavo: non semplicemente contenuti da assorbire, ma spunti per pensare: per ripensare alla crescita professionale non più come un aspetto separato e segregato della personalità, ma come una modalità di sviluppo complessivo. E soprattutto ripensare alla crescita in modo più ampio, più libero, meno da “percorso di carriera”, che spesso diventa un cammino su rotaia, obbligato. Continua a leggere Liberare spazi per la nostra formazione, per fare formazione, per essere formatori